Conoscere ed imparare attraverso il dialogo per una trasformazione collettiva
Di Michela Lupi
Sappiamo molte cose su come funzionano le organizzazioni complesse: abbiamo un’ampia letteratura a disposizione che ci spiega, da una parte come disegnarle e gestirle; dall’altra, come contribuire alla crescita delle persone e all’innovazione.
In ogni organizzazione, dalla più piccola alla più grande, si trovano spazi dedicati alla formazione ed allo sviluppo: tali spazi nutrono il processo di apprendimento continuo necessario alla crescita delle risorse ed al raggiungimento degli obiettivi di business. Si progettano programmi di training, si offrono assessment, sessioni di coaching, facilitazioni creative, etc. Nello stesso tempo, si lavora per far fluire la comunicazione interna ed esterna attraverso la definizione di processi capaci di tenere insieme le parti della sua struttura: si disegnano organigrammi, si definiscono regole, si assegnano compiti e mansioni, si distribuisce il potere e si organizzano spazi fisici e virtuali di lavoro.
In modo molto sintetico abbiamo descritto le strutture formali preposte a tenere insieme il sistema organizzativo e renderlo sostenibile, impiegando un grande numero di energie in termini di tempo e di risorse sia economiche sia umane. Ma cosa possiamo fare di più e di meglio? E se la nuova domanda fosse: cosa possiamo fare di meno e come possiamo semplificare le cose senza ridurre il valore della complessità del sistema impresa? Il paper ha l’obiettivo di cercare di rispondere a queste domande.
Sappiamo che la conoscenza è il bene più prezioso di un sistema organizzativo: sapere come fare le cose, sapere come farle meglio e come renderci unici nel farle oggi è fondamentale. Ma è ancora più importante mettere in evidenza che l’apprendimento di nuove conoscenze non è un processo individuale, bensì sociale, in quanto tutti i protagonisti condividono insieme le rispettive esperienze soggettive; immersi in una realtà comune, infatti, fanno pratica, condividono pensieri, costruiscono nuovi significati, esprimono emozioni e mettono in campo azioni co-generate. Secondo il sociologo Niklas Luhmann, nella società umana le reti sociali sono reti di comunicazione, ogni comunicazione genera pensieri, informazioni, significati, idee; questi generano ulteriori comunicazioni, e così l’intera rete genera se stessa.
Man mano che la comunicazione continua in una rete sociale, forma molteplici iterazioni di feed back e alla fine si genera un sistema condiviso di credenze e di valori – un contesto comune di significato, cui si dà il nome di cultura. Le reti sociali producono dei confini culturali che impongono dei limiti al comportamento dei suoi stessi membri.
Le strutture formali di comunicazione non possono ritenersi del tutto sufficienti per sostenere questo bisogno emergente di condivisione e nutrimento della conoscenza. Pensare che la conoscenza possa essere coltivata, condivisa solo attraverso strutture di comunicazione formale può farci incorrere in un grande errore.
Infatti, parte di questo processo generativo è sostenuto da processi di comunicazione di tipo informale: reti fluide di comunicazione mediante le quali ci si scambiano le competenze e si genera conoscenza tacita condivisa, strutture di relazioni non lineari, decentralizzate, interconnesse, interdipendenti e multidisciplinari. Le Comunità di Pratica (CdP) rappresentano la prova concreta che si possono progettare e sostenere spazi dove “gruppi di persone che condividono un interesse, un insieme di problemi, una passione rispetto ad una tematica e che approfondiscono la loro conoscenza ed esperienza in questa area mediante interazioni continue”. (Cultivating communities of Practice, Etienne Wenger, Richard Mc Dermott, William M. Snyder). Nella nostra vita abbiamo sicuramente fatto esperienza di comunità di pratica, per esempio, i gruppo di neo mamme che si incontrano al parco con i bambini piccoli per scambiarsi esperienze, informazioni, condividere emozioni e alleggerirsi dal peso del nuovo ruolo; oppure il gruppo di anziani del quartiere che si ritrovano nella piazza per dialogare insieme, condividere le loro storie e per essere al corrente di quello che accade nel vicinato. Sicuramente oggi abbiamo sempre meno occasioni per ritrovarci in spazi pubblici e anche di dialogare INSIEME, siamo spesso molto di fretta e gli spazi di ritrovo sono diminuiti. Basti solo pensare alla spesa di quartiere che è stata sostituita dai grandi centri commerciali contribuendo al nostro progressivo allontanamento dalla vita di vicinato. In sintesi, siamo sempre più isolati e meno allenati a pensare insieme; nonostante tutto questo, oggi c’è un bisogno emergente di riconnettersi, di collaborare insieme e di ampliare il campo della conoscenza, specialmente nelle nostre organizzazioni.
Un caso di eccellenza è rappresentato da Deutsche Telekom, che è la più grande azienda di telecomunicazioni della Germania con sede centrale a Bonn e che con i suoi 216.500 dipendenti è presente non solo in Europa ma anche in Asia e America.
L’azienda ha dedicato molte energie nel sostenere la nascita di comunità di pratica: oggi sono più di 200 le comunità attive e rappresentano una consuetudine. L’80% è dedicato alla condivisione delle conoscenze tecnologiche, mentre il restante 20% è dedicato a temi sociali (i.e. sostenibilità, genere), condivisione della conoscenza (i.e. agile) o altri temi di interesse extra professionali (i.e. digital @school ) e sviluppo delle competenze trasversali. Le comunità hanno le seguenti caratteristiche: sono promosse da gruppi interni all’organizzazione, si auto alimentano attraverso la condivisione di contenuti, possono essere invitati speaker esterni che contribuiscono ad ampliare il campo della conoscenza ed hanno la costanza di replicarsi nel tempo. Monica Betti, Senior HR Expert di DT, in una breve intervista ci racconta che le CdP nella sua realtà organizzativa nascono spontaneamente intorno a specifiche tematiche, o a volte semplicemente per condividere interessi comuni e supportarsi in particolari momenti della vita professionale. Alla domanda su cosa renda speciali le CdP e quali siano i vantaggi, Monica fa notare che “ sono speciali in quanto non sono legate ad una specifica esigenza organizzativa aziendale, esistono molte community per diffondere contenuti, ma queste sono gestite da team editoriali e gruppi di lavoro specifici e nascono e muoiono in base agli interessi di chi le ha fondate; ognuno ha la libertà di contribuire, non ci sono vincoli gerarchici o “di valutazione” (vincoli che spesso inibiscono la vera condivisione). I vantaggi sono molteplici perché alimentano la diffusione di conoscenza a livello informale al di là dei confini organizzativi e culturali (dipendenti appartenenti a diverse nazionalità e provenienza societaria): questo crea opportunità di condividere esperienze lavorative, ma anche specifiche conoscenze tecnologiche e ovviamente estendere il proprio network. Una cosa è certa, non si può forzare la nascita di tali network. Ci vuole tempo e pazienza. Il facilitatore ha un ruolo importante come aggregatore e promotore di tematiche/argomenti da discutere, ma la comunità non cresce e si evolve solo basandosi sul suo ruolo”.
Dunque, i benefici delle CdP sono evidenti: la conoscenza si espande oltre i confini del proprio spazio di lavoro, si creano relazioni, collaborazioni tra colleghi, anche di diverse specialità, si condividono valori e ci si muove insieme verso il cambiamento.
Le comunità nascono e muoiono spontaneamente e quando fanno fatica a decollare è perché è venuta a mancare quella spontaneità, quel modo di aggregarsi informale che consente alle persone di darsi delle regole e di decidere come agire.
Per alimentare il ciclo di vita di una comunità sono necessari quattro elementi:
- TEMA
- SPAZIO
- COORDINATORE
- FACILITATORE ESTERNO
Il tema può essere individuato spontaneamente dai dipendenti oppure può essere offerto dall’organizzazione. Nel primo caso la comunità sarà già allineata rispetto ai significati che il tema rappresenta ed anche pronta ad abbracciare un tipo di comunicazione spontanea ed autentica, nel secondo caso la partenza potrebbe essere più lenta e rendere il raggiungimento dello stato di maturità della comunità un po’ più impegnativo.
Una volta individuato il tema si offre lo spazio. Gli spazi possono essere virtuali e/o fisici; sarà cura dell’organizzazione metterli a disposizione. Generalmente vengono usate piattaforme online dalle quali è possibile aprire la comunità, iscriversi e gestire le stanze virtuali.
Il terzo elemento utile è la figura del coordinatore, colui che sostiene il dialogo, offre le domande di riflessione, fa un lavoro di sintesi rispetto al flusso dei pensieri che circolano nel gruppo di lavoro e aiuta a definire le regole del gioco, del processo di dialogo e delle modalità di comunicazione.
L’organizzazione può mettere a disposizione anche delle figure esterne nel caso in cui emergano conflitti, per esempio quando il gruppo smette di essere permeabile e non si connette più ai sistemi esterni, o quando il gruppo entra in loop e non riesce più ad illuminare il campo della conoscenza. La figura dell’osservatore esterno rappresenta l’elemento di disturbo del sistema che può portare il gruppo ad allargare il campo di osservazione e ad accelerare la ripartenza, oppure a transitarlo verso il suo scioglimento.
In sintesi, il ciclo di vita di una comunità di pratica non è sempre facile, perché sono tanti gli ostacoli che si possono incontrare, momenti di stanchezza, di conflitto, a volte sembra di non andare più da nessuna parte. Ma è anche il bello dell’esperienza sapere di esserci per noi e per gli altri, nonostante tutto. Inoltre, la comunità di pratica rompe lo schema della valutazione, della misurazione della performance, della competitività restituendo ossigeno per la mente a tutti i suoi partecipanti. All’interno del gruppo, inoltre, ogni partecipante può scegliere di volta in volta il livello di partecipazione che preferisce: può solo ascoltare, può partecipare in modo attivo e stimolante, può condividere contenuti, può dissentire. Le CdP rispondono ai bisogni base dell’esistenza umana: stare insieme in una rete di relazioni aperte per il piacere di imparare, di costruire e di connettersi agli altri in modo intelligente e creativo e sapere che possiamo reiterare l’esperienza in altri spazi e con altre persone per trasferire in altri sistemi quello che abbiamo imparato non solo in termini di contenuti specifici ma in termini di esperienza di cooperazione.
Tuttavia per cooperare, per sentirsi parte di una rete complessa fatta di sistemi connessi gli uni con gli altri a prescindere dal ruolo ricoperto nell’organizzazione e dalle mansioni svolte, per fidarsi ed affidarsi al potenziale generativo e creativo del gruppo è necessario conoscere, incontrare, fare esperienza di pensiero sistemico. Questo ci consente di arrivare dentro lo spazio della CDP capaci di riconoscere gli schemi visibili e sottostanti dei flussi di dialogo tradizionali e saperli superare e orientare verso un nuovo modo di stare insieme. Perché la nostra vita sociale è organizzata in reti, rigenerativa, intelligente e creativa, le abilità che ci servono per viverla nella sua essenza sono saper condividere la conoscenza, far emerge la creatività, connettersi agli altri e lasciarsi cambiare (Trasformazione sistemica” Michela Lupi).